mercoledì 4 marzo 2015

L’Uomo è immerso, ancorato e costituito dal Velo di Maya attraverso gli Skanda

Buddha vide un vecchio, un ammalato ed un funerale, da li capì che il mondo era caduco ed imperfetto



Inserisco di seguito un capitolo del mio libro "Il Velo di Maya" - Corrispondenze e analogie  tra Buddhismo, Cabala e Taoismo, credo sia importante ai fini della comprensione del nostro ruolo in questa dimensione karmica 


Qual’è il nostro rapporto con il Velo di Maya? Qual è il collegamento tra noi e la Creazione? Esiste un punto di contatto che fa da “ponte”  tra la nostra individualità (a sua volta frutto dell’oggetto trattato in questo scritto, ovvero gli Skanda). Diciamo che questi “Aggregati” sono un po’ gli apparati che ci pongono in grado di muoverci nell’ambiente circostante, un po’ come i vari sensori che mettono i robot in grado di muoversi senza scontrarsi con i muri o contro gli oggetti che incontrano nel loro cammino. Tutto ciò che esiste è instabile ed è così perché è vuoto di sé, è privo di un’esistenza intrinseca ed autonoma : non vi è alcun elemento permanente, immutabile ed eterno negli esseri e nelle cose. Anche nella coscienza di ognuno di noi ci sono certe propensioni e tendenze che  pur relativamente durevoli e costanti - si alterano col tempo. Tutto non è altro che un insieme di fenomeni fisici, biologici e psichici in perpetua trasformazione - si tratti di uomini o animali, di alberi o rocce, di nubi od onde e tutto perché creato dall’iniziale passaggio tra naturante e naturato, tra 0 ed 1. La nostra vita è un insieme di algoritmi matematici che “pilotano” la nostra esistenza, l’unica varietà che la rende differente è il differente approccio culturale ed individuale di ognuno di noi.
Secondo la versione Buddhista esistono dei punti di collegamento tra noi ed il Velo di Maya che si chiamano “Skanda” e sono definiti i “Cinque Aggregati”.
Gruppi di fenomeni interdipendenti e funzionalmente connessi tra loro, agglomerati di dharma reagenti gli uni sugli altri, mutevoli ed in continuo divenire. Tali raggruppamenti però non possono esser
considerati “parti” distinte di cui la cosa o l’individuo è composto, ma solo come aspetti diversi di un processo indivisibile. Anche noi siamo formati dagli skandha, che sono i costituenti psico-fisici della persona umana : questa ha relazioni col proprio ambiente grazie agli skandha, per i quali abbiamo coscienza dell’esistenza e comunichiamo col mondo che ci circonda.
Riceviamo le informazioni del mondo esterno grazie alla “sensazione” e le nostre “concezioni” derivano dalle informazioni ricevute ; la nostra “volontà” allora ci spinge all’azione ; queste funzioni sono sostenute e mosse dalla “coscienza”.
Nessuno skandha è qualcosa di autonomamente esistente, essi sono inseparabili tra di loro, ma sono anche impermanenti ; aldilà degli skandha non c’è nulla, e quindi non c’è un ‘io’ né un’anima : non c’è un essere statico, personale e permanente, o un principio ontologico eterno a cui una persona possa essere ridotta, ma c’è solo il continuo aggregarsi e divenire dei 5 skandha. E parlare di un ‘io’ è come quando si dice “un pugno di riso” (che in realtà non è un’entità, ma una molteplicità di chicchi). In effetti, l’ ‘io’ è un evento effimero, non sostanziale, prodotto dalla somma convergente dei 5 skandha ; la loro combinazione, per la durata di un’esistenza, mantiene con continuità la stabilità apparente dell’individuo in quanto persona definita. Sono essenzialmente il risultato del karma e costituiscono la base di sperimentazione della sofferenza individuale.
E’ l’ignoranza che ci fa considerare come un’unità autosussistente, come se non fossimo composti di parti e come se fossimo permanenti. Ed è sulla base di questa visione erronea che nasce in noi la distinzione tra l’ ‘io’ e il ‘tu’, il ‘mio’ e il ‘tuo’e quindi l’attaccamento e l’avversione, con tutte le conseguenze karmiche che sappiamo.
Dal punto di vista psicoanalitico applicato al Buddhismo possiamo notare che Nella tradizione Buddhista i differenti stadi di sviluppo dell'Io sono classificati come i 5 Skanda. Gli Skanda sono gruppi di funzioni della coscienza dell'individuo connessi tra di loro. Essi sono:
1) Gruppo del sensorio
2) gruppo dei sentimenti
3) gruppo della rappresentazione discriminante e delle percezioni
4) gruppo delle formazioni mentali e del carattere individuale
5) gruppo della coscienza che è coordinatrice delle precedenti funzioni.
Essi rappresentano 5 fasi di un completo processo di coscienza indivisibile.
Di istante in istante i 5 Skanda sono ricreati in tal modo che sembra che il dramma dell'Io sia ininterrotto. L'aggrapparsi all'apparente continuità e solidità dell'Io , il cercare continuamente di mantenere l' 'Io' e il 'Mio' è la radice della nevrosi". In altre parole il continuo sforzo di mantenere rigidi confini tra noi e gli altri, il porre distanza evitando il contatto per non essere divorati dal "mostro" dell'intimità e dalla consapevolezza delle nostre emozioni cozza contro l'inevitabilità del mutamento, con la sempre ricorrente morte e rinascita dell'Io, e perciò causa sofferenza. Evidentemente più si lotta per ottenere piacere e per evitare il dolore e più si crea insoddisfazione.

Per poter uscire da questo condizionamento, dalla "prigione dell'Io", è necessario ritrovare uno stato di coscienza centrale e vuoto da conflittualità. Una caratteristica universale della meditazione è proprio la sua "centralità". Abbiamo simboli differenti che la rappresentano nelle diverse tradizioni: la croce, la rosa, il sole, il cuore, il loto, il mandala, ecc. Questi simboli evocano la nozione di un centro come punto di equilibrio e di integrazione tra le polarità, come un luogo entro di sè ove il conflitto dualistico ha termine. (ricordiamo il Qabbalistico ritorno all’unità attraverso il passaggio tra le varie Sephira per arrivare all’Uno) Questo è il cuore dell'essere, il luogo ove si è se stessi e si conosce se stessi. Nella formulazione Buddhista la natura di tale centro è vuota. E' questo il concetto di "Sunyata" che letteralmente significa "senza fondo" e che è la caratteristica del punto di incontro tra le polarità (e qui mi viene il mente il Rebis o Androgino Ermetico) . E' proprio il nostro continuo evitare questa condizione di vuoto che ci spinge ad aggrapparci alle sensazioni nella nostra continua ricerca del piacere e di evitamento del dolore. E' comunque importante sottolineare che questo stato di vuoto e centralità non è da intendersi come di una condizione priva di sentimenti, poichè ciò non sarebbe che una mezza verità; piuttosto ciò che bisogna realizzare è uno stato transpersonale e non una mera inazione. Si tratta cioè di quella condizione chiamata nel Buddhismo di "equanimità" (upekka) e che non significa essere privi di sentimenti o di reazioni verso il nostro prossimo. In tale condizione non si è più cronicamente ancorati a ruoli stereotipati, a una facciata, ma ci si lascia andare alla propria natura senza giudicarla., avendo raggiunto così uno stato di "testimone distaccato" in grado di osservare imparziabilmente la propria relazione con tutti gli altri senza "interrompersi" in continuazione. "L'uomo perfetto usa la mente come uno specchio. Non trattiene niente; non rifiuta niente; riceve, ma non prende" (Chuang Tse).

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