giovedì 25 dicembre 2014

Una riflessione un poco polemica e qualche amara considerazione


Capisco che in questi ultimi tempi sia venuta a sussistere una situazione mentale in cui bruciare le tappe risulta essere fondamentale, forse l’umanità è consapevole del poco tempo rimastole, o forse meno catastroficamente, si è sviluppata una evolvente situazione di superficialità che tende ad ottenere tutto e subito, senza sforzo e senza sacrificio.
La società d’altronde, anziché cercare di ovviare il “difetto” lo agevola e lo rende possibile fornendo tutto ciò che elettronicamente è in proprio potere fare, computer superveloci, e-book super pratici e trasportabili ovunque, reti wireless per potersi integrare “virtualmente” col mondo, in qualsiasi posto ci troviamo.
Già, ormai tutto è virtuale e veloce, pratico e pronto, come in un videogioco, queste caratteristiche, per contrasto, hanno tutte quella pratiche che richiedono lungo tempo di esecuzione, sacrificio e disciplina quali ad esempio, (ne cito solo alcune) lo studio di materie Esoteriche, la crescita personale, (intimamente collegata e consequenziale ad esse) le Arti marziali ad alto livello (ovvero quelle che implicano anche l’utilizzo della mente e dello spirito)etc…
Ad ovviare alla serietà e profondità (ma anche tanta noia, tanto sacrificio, tanti dubbi ed incertezze sul percorso) delle Discipline Esoteriche e sapienziali, sono spuntate tutte quelle correnti pseudo-esoteriche di cui è piena la New Age, evoluzione spirituale tramite rituali strambi e inutili, contattismo, etc… ma efficacemente “pronte all’uso” delle menti più credulone e egocentriche, in fin dei conti perché studiare per anni su testi obsoleti quando posso contattare entità enormemente più evolute e disposte a dispensarmi la vera sapienza, la vera saggezza, l’unica forza, l’unica verità; così il mondo si è riempito di santoni, guru dell’ultimo minuto, re dell’età dell’acquario e chi più ne ha più ne metta.
Ecco che coloro i quali sputavano contro l’antica sapienza e a coloro i quali la sostenevano, tacciandoli di Religere (relegare, ma rende meglio l’idea “soggiogare”) le menti degli umani, sono pronti a sputare verità assolute divenendo a loro volta soggiogatori e Relegatori, nulla può esistere se non la loro nuova verità, per quanto assurda possa essere.
Questi personaggi la cui preparazione esoterica si limita ai film di Harry Potter e tutto ciò che di più mefitico deietta internet, più qualche libro letto “a casaccio”, si auto-definiscono Eletti, (in onore del film che ha dato origine, e anche giustamente, se lo si sa giustamente interpretare, al sospetto che questo mondo sia illusione, ovvero Matrix), e ho qui pronta la definizione di eletti regalatami proprio ieri dal “caso”, tratto da un articolo inserito in una rivista di carattere esoterico nata nel 1971. Queste righe, oltremodo aderenti ad una realtà esoterica oggettiva è di Giuliano Kremmerz e dice:” Chi sono gli eletti? Sono le persone, uomini o donne, che già seppero tutto o parte dell’Arcano. Ritornando pellegrini in questa vecchia terra, hanno bisogno delle pietre miliari che ricordino la via già percorsa, e sono le uniche persone che leggono in questi libri e in questi simboli iniziatici. Non perdete tempo, o voi che non siete preparati o non ne avete il diritto, a capire quello che non è ancora per voi….” E qui si tratta di riCORdare ovvero ri-cercare (ovvero cercare DI NUOVO) una memoria che implichi il CuORe, e non ramMENTare, ovvero uno sterile meccanismo mnemonico, che utilizza solo la mente. Possiamo qui notare che la Via da seguire non è tracciata per tutti e non tutti la sanno ne possono riconoscere.
Le Arti Marziali non sono da meno, provenendo da un Maestro realmente competente ed oltremodo severo, ogni risultato doveva essere frutto di anni di sacrifici fisici e mentali, tutto il contrario dei corsi del fine settimana con attestato finale (come comprova e prova di competenza del fruitore del corso, ad uso e consumo degli eventuali “clienti”) o degli stage il cui solo scopo è far perdere tempo e denaro.
Ma si sa, oggi si preferisce l’illudersi di essere anziché Essere senza illusioni, si preferisce apparire che essere realmente, oggi o si è vampiri o licantropi o re dell’universo o travalicatori della realtà circostante, credo che forse sarebbe meglio costruirsi addosso uno spirito più forte, che possa sostenere il nostro giudizio di fronte alla quotidianità, anziché costruirsi una maschera da super-eroe da indossare per supplire alla nostra vita meschina ed insoddisfacente, forse è meglio costruirsi addosso una reale condizione dell’essere anziché un involucro di onnipotenza da togliere la sera prima di dormire e rimettere la mattina prima di uscire di casa.
Penso che queste realtà presunte, dove solo la presunzione personale ci fa credere di essere i migliori e di essere quelli che hanno capito tutto, siano deviate, siano state deviate e facciano presa solo su menti semplici e deviate, d’altronde il mondo è irrealtà… Tutti possedenti qualità soprannaturali, tutti salvatori di mondi, e magari un sollecito da una banca creditrice o una morosità nell’affitto li mette in ginocchio, un guasto alla macchina e questi mitici personaggi che tanto agiscono nell’ultramondo vanno a piedi a trascinare la loro mediocre prosaicità, un cinque in fisica o un quattro in latino e i genitori (ovviamente non sono genitori naturali perché solitamente questi esseri semidivini sono stati adottati o sono frutto di esperimenti genetici) li sgridano come se fossero poveri mortali (ma come si permettono???), ma io mi chiedo, come mai non si tengono una parte della loro illuminata conoscenza per poter vivere (in questo mondo) con la regalità che spetta loro?
Sinceramente non capisco il motivo a questa corsa all’essere e all’apparire ciò che non si è, ricordo quand’ero piccolo, quando c’era superman o l’uomo ragno, come ci si divertiva a giocare ad impersonare questi eroi di carta, ma finito il gioco, c’era la merenda, i compiti e dopo il carosello tutti a letto!
Nessuno di noi andava a dormire credendo di essere l’uomo sabbia o ben grimm (la cosa dei Fantastici Quattro) ed eravamo piccoli!!!
Adesso si sente parlare di persone (anche più che trent’enni) che credono di essere VERAMENTE vampiri, credono di essere VERAMENTE elfi! Sarà forse colpa dei giochi di ruolo? Sarà colpa di questa società che crea aberrazioni della realtà? Dove finisce la realtà la finzione acquista caratteristiche lombrosiane o vicine alla patologia psichica, forse è la schizofrenia la malattia del secolo!
Quindi ecco comparire quello che vede cavalli volanti, o quello che viene inseguito dagli uomini in nero, quello che detiene il record di rapimenti alieni e quella che partorisce rettiliani.
Se è vero che il mondo è bello perché è vario, deve essere altrettanto vero che quando il gioco finisce risulta necessario rimettersi a studiare argomenti seri ed attendibili su testi attendibili.
Ora il testo biblico per eccellenza è internet, basta digitare un nome ed il motore di ricerca ti riempie letteralmente di siti che propongono migliaia di argomenti, ma quanto sono attendibili questi argomenti? Solo chi ha studiato in precedenza può riconoscere l’attendibilità o la falsità di ciò che si va a leggere, altrimenti si rischia di mescolare le “verità” di un Timothy Good con quelle di un Alfred Metraux (e credetemi di differenza ce ne passa) o le verità di un David Hyke con quelle di un Roberto Pinotti… e stiamo parlando di “archeologia alternativa” e di ufologia!
Senza tirare poi di nuovo in ballo le Discipline Esoteriche, dove pseudo-studiosi le azzardano di veramente grosse…
Credo che alla fine, la colpa di tutto risieda proprio in quella disumanizzazione che ha colpito la nostra società che ha contribuito a rendere “persone possedenti una personalità” (e qui gli concedo anche il 5% di dominanza) in entità astratte senza più qualità a distinguerle le une dalle altre, a questo punto ben vengano quei mitici pescatori che, al pari di Achab, pescavano pescegatti da tre metri… saranno preferibili agli improbabili re delle spade vermiglie ed alle improbabili regine dei vampiri scarlatti.
Ego, ego, ancora ego e solo ego, e sappiamo quanto l’ego sia l’elemento simbiotico tra l’essere umano e il  Velo di Maya, quindi balliamo tutti nella ragnatela!!! In questa mazurka della vita solo chi sa ballare rimane in piedi al fluttuare delle trame del karma! E gli altri? Tutti giù per terra.

Ancora sull'ego

L’ego si autosostiene ed autoalimenta attraverso l’affermazione di se e la propria egocentricità, non si può uccidere l’ego, è necessario piuttosto soggiogarlo agendo con consapevolezza.
Come possiamo sostenere di uscire dal tessuto karmico se non ne eliminiamo gli agganci tra esso e la nostra mente? Fermorestando che essendo formato dal passaggio tra unità e dualità non ne saremmo svincolati che al momento della divisione del nostro corpo nei suoi elementi.
Se ogni senso (Skanda) lo superalimentiamo e se alimentiamo odio, rancore, superbia, superiorità e tutti gli analoghi sentimenti negativi come potremo definirci “liberi e sollevati” dal tessuto karmico? Senza parlare del rischio di prendere questo impegno come un autoelevazione egoica, sarebbe la beffa aggiunta al danno! Se ci elevassimo credendo di trascendere ogni legame e guardassimo il prossimo come se fossimo arrivati alla “Buddhità” saremmo arrivati solamente a “rompere il nostro uovo”
Studiare, studiare, studiare… ma APPLICARE ciò che si è studiato (ora, ora, ora et LABORA) altrimenti saranno solo vane parole e fumo di fornace, nulla a che fare con la trasformazione di se stessi.
Anche chi  ha compreso e si permette di consigliare gli altri può farlo, sentendosi magari ferito se qualcuno ha ancora qualcosa da insegnargli dimostrando così la presenza “libera e parassitaria” del proprio ego, dimenticando che chi ha intrapreso questa strada di studio ed introspezione non deve dimostrare nulla, ma solo indicare a chi è arrivato dopo la strada tracciata prima.
Ora chi ha in cuor suo la sicurezza di non alimentare con sentimenti negativi il proprio “ospite”?
Sarebbe necessario “agire senza agire”, simile al Wu Wei taoista, applicare la non-azione, o non soffermarsi sull’azione per fare si che l’anima stessa non divenga simbiotica attraverso e con quella determinata azione.
Il wu-wei non è da confondersi ad un mero fare nulla, ad una inerzia inconsapevole, bensì aderire ad un comportamento libero da desideri egoici e da ambizioni profane, unica prerogativa di questo mondo.
Huai nan-tzu afferma che:” Colui che segue l’ordine naturale fluisce nella corrente del Tao”
Si  dice che la condizione ideale nella quale la Virtù (Tê), di ogni parte del tutto possa dispiegarsi completamente è che nella Via tutto si sviluppi spontaneamente, senza costrizioni ne frizioni tra le parti del meccanismo karmico. Colui il quale ha oltrepassato il “sonno durante la veglia” deve proprio seguire il flusso, cavalcare le onde karmiche, consapevole che se naviga con l’onda a fianco si capovolgerà sicuramente, se invece la saprà oltrepassare la sua barca sarà inaffondabile e non arrecherà nel tessuto karmico nessuna perturbazione di causa/effetto, nessun fenomeno naturale anormale e nessun disordine negli affari del mondo.
Colui che ha subito il risveglio deve controllarsi severamente in tutte le sue azioni considerandole come una microragnatelatela integrata in una macroragnatela, ogni movimento ed azione sconsiderata contravverrà alla natura delle cose e porterà conseguenze negative, al pari di chi applica il vuoto mentale chi pratica l’inattività non starà fermo aspettando che la montagna crolli, ma si muoverà in sintonia con essa,  sapendo che quando questo avverrà nemmeno un granello di polvere gli cadrà addosso, ricordando che “Quando la mente è turbata, si produce il molteplice, ma il molteplice scompare quando la mente si acquieta”.
Lao-tzu ha dato una versione del flusso del velo karmico che ha espresso nel Tao Tê Ching, Fo Hi scrisse il Libro dei Mutamenti, un testo (pseudo) divinatorio che mostra il flusso karmico ad “Effetto Farfalla”, infatti nei commentari confuciani delle “Dieci Ali” ha grande importanza l’aspetto dinamico dei feno(u)meni. La trasformazione incessante di tutte le cose e di tutte le situazioni è il messaggio essenziale del “I Ching”. Nel Buddhismo molti sono i riferimenti al Velo di Maya ed all’impermanenza vista (ma soprattutto vissuta) come non-attaccamento a questo mondo fittizio e virtuale, non per nulla la parola karma ha come radice Kri, che significa “fare radice”. (vedi il concetto soprastante),  la Qabalah ebraica mostra (al pari della Meccanica e fisica quantistica, vedi Bohm, Heisemberg, Barrow, Maxwell, Feynman, solo per citarne alcuni) che la creazione avviene attraverso uno “schema a cascata” dimostrato graficamente (e filosoficamente) nell’Albero Sephirotico. Come si può evincere che non siamo scopritori, semmai siamo fruitori di una conosc(i)enza già esistente, solo applicando queste “nozioni di viaggio” riusciremo a passare l’esame della “pesatura del cuore” e sconfiggere il Samsara, che è la ri-caduta nel Velo Karmico.
Mi viene in mente un aneddoto buddhista che può far capire come si esprima il karma, narra di un saggio (un Illuminato, ma da cosa? Da una Luce! Ma quale Luce? Della Conoscenza! Ma chi da la conoscenza? Colui/Lei che porta la Luce!), che guardava una pagina, e dentro questa pagina si accorge che c’era una nuvola, infatti senza nuvola non c’è pioggia e senza pioggia gli alberi non crescono! E senza alberi non possiamo fare la carta! Quindi se c’è questa pagina è anche grazie a quella nuvola, possiamo dire quindi che la nuvola e la pagina “inter-sono”, però guardando attentamente vedremo anche in questa pagina la luce del sole, ma anche il tempo, lo spazio, la terra i minerali del terreno, ed io aggiungerei anche (senza avere la presunzione di aggiungere nulla di ciò che aveva dedotto il nostro saggio) che oltre a questi fattori inter-agenti alla pagina,vedo anche il sudore di chi l’ha pressata, il pranzo che ha dato forza all’operaio, alla volontà muliebre di chi ne ha cucinato il pasto, di chi ha coltivato o allevato gli alimenti che ne hanno dato costituzione, di chi ha portato gli ingredienti al commerciante che li ha venduti alla moglie dell’operaio, e così via fino all’inizio di tutte le cose…
Putroppo al momento siamo vincolati da questa “ragnatela karmica” da eventi tracciati prima della nostra nascita, tutto sta a stabilire chi sarà ragno e chi mosca… a questo serve anche “morire” e rinascere iniziaticamente, per spezzare tutti i fili della ragnatela, tabula rasa necessaria  per crearne una nuova dopo la raggiunta consapevolezza.
Per finire(?) posso solo aggiungere le parole del saggio taoista Chuang-tzu :”Il fine della nassa è il pesce: preso il pesce metti da parte la nassa. Il fine del calappio è la lepre: presa la lepre metti da parte il calappio. Il fine delle parole è l’idea: afferrata l’idea metti da parte le parole”.

Ego

Una mente che non ha problemi, può vedere dentro di sé, ed è per questo che è in grado di vedere attraverso gli altri. In Occidente, esistono numerose scuole di psicoanalisi, ma non sono di aiuto alle persone, anzi sono piuttosto un danno. E questo perché chi aiuta gli altri, o cerca di aiutarli, o si propone in quanto aiuto, in realtà si trova sulla stessa barca di coloro che vorrebbe salvare.
E’ difficile vedere il proprio ego. E’ molto facile vedere quello degli altri. Ma non è questo il punto, tu non li puoi aiutare. Prova a vedere il tuo ego. Osservalo semplicemente. E non avere fretta di lasciarlo cadere, osservalo semplicemente. Quanto più lo osservi, tanto più sarai in grado di osservarlo. E un giorno, all’improvviso, ti accorgerai che è semplicemente caduto. E quando cade per conto suo, solo in questo caso cade veramente. Non c’è altro modo. Non puoi farlo cadere prima del tempo. Cade esattamente come una foglia secca.
L’albero non fa niente: basta un soffio di vento, qualcosa che accade… e la foglia secca semplicemente si stacca. L’albero non si accorge nemmeno che la foglia secca sia caduta. Non fa rumore, non pretende niente, proprio niente. La foglia secca cade semplicemente, e non fa altro che frantumarsi sul terreno. Proprio così…
Quando, attraverso la comprensione e la consapevolezza, maturerai, e avrai realizzato davvero che l’ego è la causa di tutta la tua sofferenza, un giorno vedrai semplicemente cadere quella foglia secca. Si poserà a terra, morirà per conto suo, senza che tu abbia fatto nulla, senza la pretesa di essere stato tu a farla cadere. Ti accorgerai che l’ego è semplicemente scomparso, e in quel momento emergerà il vero centro. Questo vero centro è l’anima, il sé, dio, la verità o qualsiasi altro nome gli vogliate dare. E’ senza nome, per cui gli si può dare qualunque nome.
Puoi dargli tu stesso il nome che preferisci.

Sulla meditazione una visione della Psico-neuro-endocrino-immunologia.


È noto che il cervello è caratterizzato da una notevole  attività elettrica, misurabile con l’elettroencefalogramma.  Quasi cinquanta anni fa, per la prima volta, vennero
individuate nel cervello delle onde ad elevata frequenza, tra i 30 e 100 Hertz (Hz, cicli al secondo), battezzate gamma.
Nell’ultimo decennio, queste onde hanno ricevuto una particolare attenzione in quanto emergono in concomitanza dello svolgimento di vari compiti legati a stimoli sensoriali, ma anche ai circuiti dell’attenzione e della coscienza. In particolare, diversi studi hanno segnalato l’esistenza di una forte corrente di onde gamma nell’ippocampo, area fondamentale per la memoria. Ma dove è situato il generatore delle gamma e che rapporto c’è tra queste e le altre onde cerebrali e, in definitiva, qual è il significato generale dell’attività elettrica osci1latoria
del cervello? Una prima importante risposta è venuta da un gruppo misto, neuro-fisiologi e ingegneri informatici, guidato da Gyorgy Buzsaki, dell’Università del New Jersey. Con un
ampio articolo, pubblicato sulla rivista Neuron, Buzsaki e colleghi dimostrano che una particolare area dell’ippocampo, denominata CA3, costituita da grandi neuroni cosiddetti piramidali, contiene il generatore del ritmo gamma. Questi neuroni sono davvero speciali: sono, infatti, dotati di notevoli ramificazioni e di una intrinseca capacità oscillatoria. Da loro, parte un ritmo che, via via, pervade le altre aree dell’ippocampo proiettandosi, a seconda delle necessità, in diverse direzioni.
L’anno scorso, lo stesso studioso, sempre su Neuron, aveva dimostrato che dalla medesima area ippocampale (CA3) si origina il ritmo di un’altra classe di onde, non ad alta frequenza come le gamma, ma a bassa (4-8 Hz), denominate teta. Qual è il rapporto tra i due ritmi cerebrali?
È stato visto che, in assenza di ritmi teta, i gamma non scompaiono, ma sono disordinati e meno potenti. È evidente quindi che l’oscillazione teta mette in fase e potenzia anche l’oscillazione gamma. Il teta è il ritmo di fondo dell’ippocampo che sincronizza altri ritmi ed è ciò che consente a questa area cerebrale di svolgere compiti legati alla formazione di nuovi ricordi e al richiamo di quelli già codificati.
Ma perché il cervello ha bisogno di un ritmo ondulatorio per svolgere i suoi compiti? Perché qualsiasi compito, per potersi espletare, ha bisogno della integrazione in network di aree
cerebrali separate e, spesso, anche molto distanti tra loro.
Ad esempio, quando percepiamo un oggetto, il nostro cervello lo scompone in una serie di qualità, relative al colore, alle dimensioni, ecc., che vengono elaborate da circuiti separati.
Come avviene poi la ricomposizione in una rappresentazione unitaria è ancora un mistero, ma con certezza, adesso sappiamo che si registra una forte attività oscillatoria di tipo gamma
che unifica popolazioni di neuroni collocati nelle aree visive, nell’amigdala, nell’ippocampo, ne1le aree corticali associative parietali e frontali.

mercoledì 24 dicembre 2014

Fra “scienza” e “magia”: dal cosmo ordinato alla natura magica

Per la mentalità greca l’idea di natura si basava su un principio incontrovertibile e immutabile cui anche la divinità era subordinata. Il dio greco non è creatore e non  può violare il cosmo, né compiere miracoli. Egli è la sacralità della natura. Dal naturalismo della filosofia greca al “dubbio del cristianesimo alla “natura come era concepita nel Rinascimento, questo studio percorre il sottile confine tra scienza e magia.

L’idea centrale che l’Antichità aveva avuto della natura è sicuramente riconoscibile nell’aforisma classico: “Natura hominum deorumque domina ” [Signora degli uomini e degli dei]. Essa come tutti i padroni è gelosa del proprio potere e non lo spartisce con nessuno, esige che si rispetti il suo primo comandamento: “Natura sequere “, ma a chi si dimostra figlio amorevole e rispettoso Essa offre, come la Madre, tutto quel che gli è necessario per la sopravvivenza. Tutte le etimologie ce la presentano come madre, nutrice e pedagoga. Increata, quindi eterna, essa ha il carattere che compete al più potente degli dei, quello a cui tutti gli altri debbono obbedienza. Di fronte a lei Moira ed Ananche e lo stesso Zeus, Padre degli dei, chinano il capo in segno di sottomissione. La sua legge è duplice: fisica ed etica nello stesso tempo; causa-effetto e colpa-pena hanno, per il greco classico, lo stesso tono epistemologico e morale: sono le leggi che governano l’ambiente fisico e quello sociale in cui vivono gli uomini e gli dei.
Sostanza delle cose che hanno in se “il principio del loro movimento” (divenire) essa rappresenta anche il primum metafisico oltre che quello teologico-morale.
Nulla ars imitari solertiam naturae potest è il secondo dei suoi comandamenti, quello che perfeziona il primo affiancando all’obbligo di seguire la legge di natura, il divieto di forzarne il corso. Robert Lenoble, con una formula suggestiva, lo ha chiamato “il tabù del naturale”. Sul piano delle forme delle mentalità lo psichico che si trasporta e si trasmette dall’individuo alla collettività ed a questi di nuovo ritorna sotto forma di norma sociale, questo tabù acquista anche le caratteristiche connotative dell’incesto. (Svelare, penetrare, violare i segreti della Natura)
Madre Natura! Quante volte questa espressione è stata ripetuta a qualificare un imprenscindibile legame di parentela viscerale! Infrangerlo significa autocondannarsi all’automatismo della pena. Seguire la natura però non esclude l’arte. L’artigiano infatti nel rispetto delle leggi di natura può imitare i prodotti della Madre e anche se i risultati resteranno di necessità molto differenti, Essa comunque guarderà il figlio con benevola condiscendenza. La suddivisione fra naturale e artificiale non è però, l’unica possibile delle suddivisioni dell’universo fenomenico. Sia pur in via di ipotesi per assurdo, al naturale e al praeternaturale può essere aggiunto l’innaturale. L’intento di salvare i fenomeni, costante nel pensiero aristotelico (come più tardi lo sarà in quello galileano) nell’accezione di spiegare le apparenze ricorrendo ad un sistema teorico in cui le cose sicut apparent vengono riportate all’universo d’oggetti della teoria e quindi dotate di loro specifiche proprietà e relazioni, non ha costretto ne la fisica aristotelica (né tantomemo la scienza galileana) ad interessarsi della salvezza dei fenomeni eccezionali, ineffabili, legati a cause occulte o a manifestazioni epifenomeniche della volontà divina. Il miracolo dovuto alla fede religiosa ed ai prodigi laici legati alla sfida contro la divinità non è né naturalia né artificialia; dal punto di vista dell’atteggiamento razionalistico, il sovrannaturale miracolante e l’innaturale miracoloso, non esistono scientificamente o, perlomeno, non hanno alcun rapporto con il mondo della Natura. Come leggere altrimenti la necessità ontologica che regge il mondo naturale, se tale necessità e tale ordine necessario può essere sconvolto in qualsiasi momento dal capriccio dell’opera prodigiosa e dall’intrusione del sovrannaturale miracolante?
La battaglia iniziata in favore della natura (affrancata da quelle divinità presenti in tutti i fenomeni, e sostituite da principi naturalistici) si trascina nel mondo greco, per più di due secoli, dai protofisici Milesi, attraverso Senofane, fino a Democrito e si conclude con Aristotele, ma era stata una battaglia in cui non era mai stato messo in dubbio da nessuno il fondamento primo: l’incontrovertibilità dell’ordine naturale. Il primo resoconto storico sul mondo era stato, necessariamente, un resoconto mitico ossia fatto attraverso la parola che racconta la meraviglia. Questo altro non è che la “potenza del favoleggiare”, l’uso magico della parola, il che è un bisogno ancor più imperioso di quanto non lo sia quello del ragionare. Non si può: invocare l’ignoranza per dar ragione dell’atteggiamento mitico, l’ignoranza non spiega nulla, mentre questo tipo di pensiero sa tutto e rende ragione di tutto; non vi sono fatti che lo scalfiscono in quanto nel riportarli all’originario li riporta ad un archè dotato di anima e di caratteristiche morali. L’ambiguità della cosmogonia platonica è solo in questa concessione al mito: il fornire l’universo di struttura fisico-matematica e nello stesso tempo di anima, ma assolutamente non accetta lo scandalo originario di tutte le visioni mitico-religiose: la creatio ex nihilo. Il pensiero greco aborre profondamente da una impostazione di questo genere, il dio greco non crea, ma ordina; egli è lo strumento per cui la legge naturale si compie in termini di perfezione. La proposizione che asserisce l’origine dell’essere dal nulla non si può, secondo gli Eleati, né pensare né tantomeno pronunciare. Ma anche nel momento in cui la cultura greca, uscita dal dramma parmenideo, era riuscita con Platone ad imboccare la strada della salvazione dei fenomeni e, quindi, a riproporre il tema dell’origine dell’universo, questa strada non ha mai percorso l’itinerario della creazione. Il dio greco è ordinatore, ma non creatore e in quanto ordinatore deve egli medesimo consentire alle leggi di natura e, di conseguenza, non gli è assolutamente permesso di violare il cosmo. Spesso i poeti ci dicono che al dio tutto è concesso e che esso tutto può, ma questo tutto è iscritto nella sfera dell’accidentale. Egli non ha alcuna possibilità di compiere il miracolo. Il più immediato dei limiti imposti al dio greco è quello di non avere alcun potere sulla morte. Nella religione greca il divino non compare che eccezionalmente quando si tratta di salvare, ammonire, punire, premiare gli uomini; esso è presente nella Natura come sua forma, essenza ed essere. Nelle altre religioni il dio combatte per il suo popolo e lo fa mettendo in gioco tutti i suoi poteri sovrannaturali, quando si presenta lo fa con quella stupefacente gravità che toglie il fiato agli astanti, egli comunica il brivido di eternità che ha l’ineffabile elevatezza e l’inimmaginabile distanza. Il dio greco, invece, è sempre presente nella storia, nei poemi omerici incombe dietro ad ogni avvenimento e nulla si fa senza che si avverta la presenza del divino. Ma questa presenza non opera mai il miracolo. Se il dio greco manca della santità degli dei degli altri popoli, manca anche dei loro poteri eccezionali. Ma a differenza di questi egli non appare mai come un che di sovrannaturale ed extrastorico. Egli rappresenta la sacralità della natura, la quale pur senza mai perdere i venerabili contorni del divino, si eleva nella sua condizione di realtà sensibile ed intelleggibile. Nulla avviene se non per la necessità fissata nelle cose; la Legge è la stessa che regola sia la polis che ilperiechon. E’ per questo che il mondo è intelleggibile e razionale: la città dell’uomo è governata dalla legge morale, mentre l’universo da quella fisica ossia dalle due facce della medesima “causa necessaria”. La legge è ciò che garantisce all’abitante della polis la libertà e all’universo la sopravvivenza; l’ordine che non può esistere senza la legge consente nello stesso tempo l’esistenza della polis e del cosmo.
Questa legge universale, capace di fungere da principio unificatore ed elemento ordinatore di tutto l’esistente andava rigorosamente garantita da qualsiasi tentativo di violazione. Nella antica mitologia le Erinni (le severe signore gendarmi di Dike) svolgono la funzione di personificare la potenza delegata alla difesa delle norme e, quindi, alla custodia dell’ordine naturale e sociale. L’ordine necessario è assolutamente inviolabile, esso è la legge di natura che fa si che l’universo sia regolato secondo giustizia; nessuna azione può romperlo, nessuna volontà può piegarlo, neppure il dio vi si può opporre.
Quando l’uomo diventa superbo e si ingelosisce degli dei, quando l’ybris lo avvolge, allora per invidia del loro potere concepisce l’intenzione di “andare oltre”, di rompere l’ordine fissato. E’ in quel momento che scatta la ftonos, ossia la legge del contrappasso, l’ineluttabile punizione che non può mai trasformarsi in perdono perché il suo scopo è quello di ricomporre l’ordine che l’intenzione (non l’azione ) dell’uomo aveva provato ad infrangere.
Confrontata e messa in chiaro all’interno di un tale spazio prospettico, la cosmogonia del Pimandro mostra l’invalicabile distanza che separa il naturalismo rinascimentale dalla fisica dal mondo classico. La riscoperta ficiniana di Ermete e la conseguente applicazione pichiana della magia delSermo Perfectus non possono assolutamente essere viste come un recupero della filosofia ellenica della natura, bensì come un itinerario speculare ed opposto a questa.
In definitiva un altra filosofia. Altra in particolare rispetto all’aristotelismo che, al contrario, aveva costantemente cercato di garantire l’ordine naturale.
Sotto questa luce si può immediatamente comprendere il perché, almeno fino alla metà del XVII secolo, sono in pochi a credere che l’edificio della filosofia classica debba essere abbattuto dalle fondamenta. In realtà la filosofia aristotelica non ha ancora stancato di convincere e, nonostante per quasi due millenni avesse trovato ovunque oppositori, alla fine risultava sempre la più convincente fra le interpretazioni sistematiche del mondo. La forza di questo grandioso sistema di filosofia naturale risultò infatti anche dalla estrema debolezza dei sistemi concorrenti, i quali commisero lo stesso errore di credere che la filosofia fosse l’unica forma di sapere sulla natura, ma a differenza di Aristotele non seppero dar ragione della Natura riportando i fenomeni ad una teoria in cui avrebbero dovuto essere ordinati secondo l’esigenza dell’universalità e della necessità il che è, in definitiva, ancora l’unico modo per risolvere l’aporia parmenidea e “salvare i fenomeni”
Nel II libro della Fisica, Aristotele aveva istituito la differenza fra l’opera della Natura e quella dell’uomo come differenza fra sostanzialità ed accidentalità: “La natura è il principio e la causa del movimento e della quiete delle cose, alla quale inerisce in primis e per sé, non accidentalmente l’essere “. Tutta la fisica aristotelica (teoria dell’essere in divenire) diventa quindi una colossale definizione del concetto di Natura. Nel IV e V libro della Metafisica tale concetto è chiarito in modo da non lasciare adito a dubbi su quel che l’Autore intende per Natura: “Sostanza delle cose che hanno in sé il principio del movimento“, mentre la fisica è detta la scienza che ha per oggetto” quella sostanza che ha in sé stessa la causa del suo divenire“.
La pietra di paragone sulla quale provare ciò che è naturale da quello che non lo è, è così stata trovata. Solo il “non esistente” può essere considerato “innaturale” Non a caso Aristotele dimostra l’inesistenza del vuoto, facendo vedere che il movimento di un oggetto nel vuoto sarebbe innaturale, o meglio che, data l’ipotesi per assurdo, esisterebbero degli enti che non tenderebbero al proprio fine, che è la realizzazione della propria forma, sostanza o natura. L’artificiale invece non sta fuori dall’ordine naturale, ma appartenendo alla sfera dell’accidentale, fa parte della Natura. L’artigiano che, però, non si limitasse soltanto a copiare la Natura, consapevole e convinto di non poterla mai raggiungere, ma che volesse, al contrario sostituirsi alla solerzia (solus ars) di Madre Natura, dovrebbe rassegnarsi alla vendetta che colpisce gli hybrizontes: il fallimento. E’ così che è solo l’intenzione ad andar contro natura e non il risultato dell’operazione. L’andar contro natura non porta alcun danno alla natura, ma solo a chi ha commesso il crimine.
La fisica aristotelica rappresenta quindi l’apice a cui giunge la visione del mondo del naturalismo classico e, fedele all’idea che è sui principi della metafisica che è possibile costruire sia la fisica che la teologia, l’aristotelico non spiegherà mai il miracolo (fatto evidentemente sempre estraneo all’atteggiamento metafisico) e, quando si troverà a non poterne fare a meno, dato che talvolta deve ammettere evidenzialmente il prodigioso, sarà costretto ad arrampicarsi sugli specchi o rifacendosi ad un disegno spirituale della Provvidenza e della Volontà divina come San Tommaso o entrando artificiosamente, come il Pomponazzi, di riportare i miracoli all’ordine naturale mediante il ragionamento che questi sono la rarissima eccezione che conferma la regola.
Due soluzioni estremamente pericolose in cui non cadono né Aristotele né gli scienziati del XVII secolo per i quali, in modo peraltro epistemologicamente corretto, ciò che non fa parte dell’universo d’oggetti della teoria non deve neppur essere preso in considerazione in quanto non “esiste”. La rottura delle basi teoriche e teoretiche, rappresentato dall’evento miracoloso, avrebbe significato, infatti, la condanna al disordine e quindi alla perdita di senso di ogni funzione cognitiva
Paradossalmente fu il massimo interprete cristiano di Aristotele colui che inserirà nella cultura occidentale il dubbio che su questo punto estremamente qualificante lo Stagirita avesse sbagliato. LaQuaestio 178 della Secunda SecundaeDe Gratia miraculorum, è scritta infrangendo le stesse basi della filosofia classica. San Tommaso infatti dopo aver precisato che il miracolo è “qualcosa che va oltre le facoltà della natura”, e che la ragione per cui il miracolo avviene è “per manifestare il soprannaturale“, si chiede “se anche i malvagi possono compiere il miracolo“. La risposta, come noto, è negativa, dato che “i veri miracoli sono fatti soltanto da Dio e per l’utilità degli uomini “. Egli però ammette l’esistenza di fatti che non sono per la verità miracoli veri e propri perché “non habent rationem miraculi ” (il sigillo divino), pur essendo fatti straordinari, prodigiosi, in grado di sconvolgere l’ordine naturale. Sono questi fatti, apparizioni soprannaturali o eventi prodigiosi, opera del Maligno il quale, in modo alquanto curioso, opera “virtutem aliquarum naturalium causarum” [grazie a certe cause naturali] proprio per sconvolgere l’ordine naturale.
D’ora in poi la distinzione fra miracolo e prodigio è fissata: solo Dio può fare miracoli modificando per fini spirituali e con mezzi sovrannaturali l’ordine che egli stesso ha fissato alla natura, mentre è Satana che compie i prodigi e tramite i suoi emissari umani sconvolge l’ordine naturale con mezzi perfettamente naturali. Il problema del miracolo è giocato dalla Scolastica negli stessi termini con cui Aristotele aveva impostato la differenza fra naturale e artificiale. L’analogia è scoperta: il demonio è la scimmia di Dio, così come l’arte è la scimmia della natura e, così come l’imitazione della Natura può istituirsi soltanto sulla sfera estrinseca dell’operare, ma non su quella intrinseca dell’essere, allo stesso modo il prodigio imita il miracolo nel suo svolgersi, ma non nel suo essere.
La ricetta con la quale furono scritte le tante demonologie del XVI secolo è di semplice esecuzione, dato che le demonologie altro non sono che teologie a rovescio (in cui Satana si sostituisce a Dio, ma solo in modo accidentale). Satana è il grande naturalista dell’epoca: conosce le virtù delle erbe e delle pietre, sa quelli che sono gli influssi degli astri, tiene viva la speranza degli uomini di raggiungere il sogno atavico della vittoria sulla natura e del dominio sugli elementi, conosce le formule e quindi sa trattare con i nomi delle cose e, di conseguenza, conosce le cose. L’emblema della Superbia (il primo cultore dell’hybris), Colui che ha tentato l’uomo affinché mangiasse dell’albero della conoscenza, è alchimista, cabalista, astrologo, negromante, geomante, piromante, idromante, aeromante, aruspice, augure, mago naturale… Egli è definito “il principe di questo mondo” ossia colui che ha pieno potere nella sfera sub-lunare. Il suo però non è un potere carismatico, ma è conquistato nella continua sfida alla natura. In questo senso egli è il padre della mentalità naturalistica e nello stesso tempo il padre del disordine, il primo assertore della formula smaragdiana: “Ciò che sta in alto è come quel che sta in basso e quel che sta in basso è come quel che sta in alto “. Nella girandola del pampsichistico non esiste un ordine da rilevare, leggi da fissare, cose da oggettivare, ma solo un fecondo disordine che va costantemente ricostituito. Ma allora quale senso dare al diffusissimo uso che il termine “naturale” ha acquisito nella filosofia del Rinascimento tanto da divenirne quasi l’aggettivo qualificativo? Marsilio Ficino dichiara che la vera magia è quella di coloro che: “sottopongono opportunamente le materie naturali e le cause naturali, onde si plasmino per una certa mirabile legge” e ancora: “.. non si parla qui di quella magia profana che si fonda sul culto dei demoni, ma della magia naturale che sfrutta i benefici influssi celesti con i mezzi naturali “. Pico della Mirandola ribadisce che l’operazione magica è il matrimonio del mondo che avviene “actuando vel uniendo virtutes naturales “.Cornelio Agrippa di Nettesheim avverte che il Mago ottiene i suoi scopi attraverso: “..la concordanza del mondo in cui le cose celesti attraggono quelle sovracelesti e le cose naturali quelle sovrannaturali grazie alla virtù che circola in tutte le cose e alla partecipazione ad essa di tutte le specie” e ribadisce che:”..s’ingannano quelli che stimano le operazioni magiche essere sovrannaturali o praeternaturali mentre provengono dalla natura e son fatte secondo natura “. Pietro Pomponazzi addirittura pensa che angeli e demoni siano costretti ad agire secondo le leggi cui sottostà il mondo naturale. Il Della Porta avverte che: “chi cerca una ragione di tutto distrugge insieme scienza e ragione ;chi non ha fede nei miracoli della natura costui cerca di distruggere la filosofia ” e ancora del mago : ” .. cava i segreti i quali stavano tutti racchiusi nel grembo della natura “. Bacone stesso nel descrivere Nuova Atlantide dice che là vi è una casa degli inganni, una specie di laboratorio dove si apprendono tutte le arti atte a generare meraviglia tramite tecniche illusionistiche. I sapienti della Casa di Salomone, però, non ricorrono mai a queste, pur conoscendole, ma si dedicano a produrre operazioni “miracolose” per via naturale. Il capolavoro del naturalismo rinascimentale è la rottura con il principio aristotelico che sancisce la differenza, in ordine alla diversità delle rispettive forme, fra i naturalia e gli artificialia, proclamando l’artificialità del naturale. “Per gli uomini del XVI e XVII secolo – scrive il Koyrè – tutto è naturale e nulla è impossibile a farsi, dato che la magia tutto governa e la stessa natura non è che magia operata da un Dio supremo mago 
La strada aperta da Marsilio come pia philosophia o docta religio si trova ad essere esattamente rovesciata ed il cammino è invertito. Nessuna regola esiste più, l’incoartabile eros del Pimandro, tra uomo e natura, fluisce senza limiti, l’ascesi è dimenticata, il ritorno all’Uno-Tutto è lasciato da parte, la funzione sacerdotale della magia viene superata, il massimo della soddisfazione del Mago rinascimentale gli viene dal rapporto diretto con la Natura che, da mezzo per salire a Dio, diviene fine a se stesso. L’unico principio metodologico ed epistemologico che guida il lavoro del naturalista, vuoi cultore di scienze occulte vuoi cultore di magia naturale, è l’analogia come libera associazione d’idee (reputata per una curiosa riedizione della dottrina scolastica dell’adaequatio non solo legge del pensiero, ma anche norma universale che regola tutti gli esseri). L’analogia non richiede un metodo i quanto essa stessa è metodo che si fonda sulla rottura di ogni schema, ribellione al pensiero disciplinato, libero ed incontrollato fluire della metafora: il gioco del significato che ripercorre se stesso e sul proprio cammino si ricrea in un caleidoscopio di strutture analoghe, univoche ed equivoche che tra di loro si richiamano, si elidono e si rafforzano. Non esiste nel ricettario del “sorçier” una sola prescrizione autenticamente normativa; ogni mago, astrologo, alchimista ha una sua precettistica sulla quale costruisce un ricettario che viene inevitabilmente dichiarato inefficace da tutti gli altri maghi e, nello stesso tempo, unico e infallibile dal suo estensore. Sullo schema concettuale della Divina Analogia il XVI secolo costruisce i predicati base della sua teoria fisico-naturalistica. Questi sono le simpatie e le virtù, con ciò si può poi passare a definire con precisione le proprietà e le relazioni fra i fenomeni. Ma nessuno dei maghi del Rinascimento è disposto ad ammettere che i miracoli della magia rappresentano una violazione alle leggi naturali: “La magia naturale è dunque quella - scrive Cornelio Agrippa – la quale avendo contemplato la forza di tutte le cose naturali e celesti e con curiosa diligenza il loro ordine, in tal modo pubblica le nascoste e segrete possanze di natura copulando le cose inferiori con le superiori …. per una scambievole applicazione di quelle; di maniera tale che spesse volte di qui ne nascono stupendi miracoli non tanto per l’arte quanto per la natura ala quale quand’ella opra di quelle cose, quest’arte si da per ministra. Perciocchè i magi come diligentissimi esploratori della natura conducendo quelle cose che sono preparate da lei, applicando gli attivi ai passivi, spessissime volte innanzi il tempo ordinato dalla natura producono effetti quali dal vulgo sono ritenuti per miracoli sendo però opere naturali non intervenendo altro che la sola anticipazione del tempo: come se alcuno facesse nascer rose nel mese di marzo o crescer l’uve mature ..” Ma da una attenta lettura del De Occulta Philosophia il suo è, invece, un dichiarato progetto di conquista dell’onnipotenza: “Penetrare successivamente in ciascuno dei tre mondi e giungere fino al mondo archetiipo animatore … e godere non solo delle virtù possedute solo dalle cose più nobili, ma conquistarne di nuove e sempre più efficaci … Conseguire tanta forza attrattiva, ottenere sempre più mirabili e grandiose opere si da ascendere a tale perfezione da divenir simili al figlio di Dio, trasformarsi nella immagine stessa di Dio ed essere con lui una cosa sola “. A tal fine non rifugge dal ricorrere a tutte le tecniche che Marsilio reputava vietate e Pico dichiarava vane e sciocche, quali la stessa magia cerimoniale. La terza parte della sua famosissima opera è appunto dedicata ad una magia che non disdegna tra l’altro l’esorcismo, l’invocazione dei demoni e la necromanzia.
L’abate Tritemio scrive un’opera, la Steganographia, in cui si insegna ad evocare gli angeli (e con qualche lieve modifica i demoni) dei vari distretti. A differenza di Marsilio che dalle Gerarchie celesti dello pseudo-Dionigi aveva tratto soltanto la rete dei collegamenti fra la Trinità, le Intelligenze angeliche e le Sfere, ma si era piamente interessato (dal punto di vista operativo ai soli pianeti), Tritemio insegna a mettersi in contatto telepatico con gli Spiriti celesti ed a carpir loro, anche loro malgrado, i segreti dell’Universo. J. Dee, il matematico elisabettiano riscopritore di Euclide, si dedica con l’aiuto del ciarlatano Edward Kelley, all’evocazione degli spiriti dei defunti. Gerolamo Cardano, forse il più geniale degli algebristi moderni, spazia tutti i campi del magico ed usa la matematica anche come tecnica strumentale per le sue pratiche astrologico-cabalistiche. Il medico Jean Fernel, uomo di non indifferente statura clinica, applica l’astrologia alla terapeutica (cosa peraltro consueta ad ogni medico), ma vi aggiunge talismani, evocazioni e formule. Anche Michele Serveto (condiscepolo di Vesalio) al quale si attribuisce la prima idea della circolazione polmonare, non ha alcun ritegno a dedicarsi alla magia. Tra i grandi astronomi dell’epoca non vanno taciute le scoperte simpatie magico-astrologiche di Tycho, Digges, Regiomontano e Keplero; tra i matematici quelle di Cardano, Dee e Copernico; tra i filosofi quelle di Bruno, Pomponazzi e Campanella; tra i medici quelle di Fernel, Serveto, Fracastoro e Paracelso; fra i fisici di Gilbert e Della Porta e fra gli ingegneri Besson e Salomone di Caus indulsero alle tematiche e alle tecniche della magia. Sono questi alcuni dei nomi più importanti (e non abbiamo citato gli artisti) della “filosofia naturalistica” e dello stesso tempo della “scienza” del XVI e degli inizi del XVII secolo.
Il caso del Somnium di Keplero, spesso sottaciuto o solo accennato nelle storie della scienza, è al riguardo emblematico. Opera autobiografica e non certo solo di fantasia, il Somnium ci racconta la filiazione culturale del padre dell’astronomia e dell’ottica moderna. Egli racconta che, ancor fanciullo, iniziato dalla madre, una Strega, alle tecniche della magia popolare (in effetti Katarina Kepler fu sottoposta ad un processo per stregoneria e riuscì a salvarsi grazie all’intervento del figlio), avendo smarrito alcuni talismani, viene ceduto in luogo di quelli al capitano di una nave che spesso faceva uso dei servigi della Strega; costui lo conduce all’isola di Uranisburg, dove lo vende a Tycho Brahe che lo istruisce ai segreti dell’astronomia e dell’astrologia.
E’ questa la parabola il segno emblematico di tutta la sua epoca: nell’istruzione del giovane Duracoto (lo pseudonimo scelto da Keplero) figlio naturale della Strega e figlio putativo del Dotto-Mago-Astronomo si riconosce il cammino di quell’età del mondo, breve, ma intensa che va sotto il nome di Rinascimento scientifico: un tempo in cui l’uomo è figlio della Strega e dello scienziato. Generato dall’intelligenza della fantasia, dall’eros incoartabile verso la vita, dai sogni disegnati dal desiderio, l’età della “rinascita” coltiva una struttura di fecondo disordine generale fatta però di parti rigorosamente ordinate e funzionalmente connesse.
Il rapporto Uomo-Natura che, nel Rinascimento, aveva superato il tabù dell’incesto con la Natura Madre, divenendo quasi rapporto carnale con I’Amante, si traduce, all’inizio dell’eta moderna, in un matrimonio di scarsa esaltazione poetica, ma di grande utilità pratica. Al paritetico rapporto Uomo-Natura dello splendido mito ermetico che, da Marsilio Ficino in poi viene riproposto all’occidente, corrisponde la forma dialettica del servo-padrone di Bacone: nel primo caso, in cui: “la Natura avendo accolto in se l’amato I’abbraccio e si unirono perché ardevano d’amore”, vivono e si sviluppano tutte le esaltanti fantasie inquiete e gli inappagabili desideri dell’incoartabile eros giovanile, nel secondo, l’appena conquistata maturità genera un matrimonio dove: “ars est homo additus naturae” e “naturae solum imperatur nisi parendo”.

Avvertenze

Essendo possibilista ed aperto a qualsiasi ipotesi non escludo nulla a priori e non erigo barriere a nessun tipo di pensiero, teoria, filosofia e religione che sia. Ciononostante, non approvo le coercizioni, le violenze di pensiero, le religioni totalitaristiche, i fondamentalismi o i fanatismi varii.
Amante da sempre del sincretismo tra le varie saggezze, cerco analogie e corrispondenze tra le maggiori filosofie e mistiche sino ad ora conosciute e le nuove scoperte delle scienze di frontiera.
Una mia visione personale è che possa esistere un ente che informa (da informatio(-nis) (dal verbo informare, nel significato di "dare forma alla mente", "disciplinare", "istruire", "insegnare"μορφή (morfè, da cui il latino forma per metatesi) il caos dandogli, attraverso costanti numeriche multiversali, un ordine costituito.

 Questo soddisfa sia la mia parte “irrazionale e mistica” e la mia parte scientifica nella ricerca di unire in un'unica visione la scienza della materia e la scienza dello spirito, un po’ quello che ha cercato di fare Kant unendo matematica, fisica e metafisica.

lunedì 22 dicembre 2014

Voladores e libero arbitrio


Pubblicato da Kojin Sensei in 16 agosto 2011
«Perché desideriamo che qualcuno ci guidi quando possiamo fare da soli?»
«Gli sciamani dell’antico Messico scoprirono che abbiamo un compagno che resta con noi per tutta la vita, un predatore che emerge dalle profondità del cosmo e assume il dominio della nostra vita.»
Don Juan Matus
Rispetto a quanto riferito fino ad ora della concezione tolteca, le considerazioni che seguono possono apparire ancora più sconcertanti e possono generare una varietà di reazioni nel lettore: di difesa come il rifiuto o di consapevolezza profonda come angoscia, senso di schifo, paranoia.
Rivolgo per questo al lettore lo stesso invito che il Nagual Carlos fece alla conferenza di Santa Monica, in California, nel 1993 – la sua prima apparizione pubblica dopo decenni di totale anonimato:
«Il mio nome è Carlos Castaneda. Vorrei pregarvi di una cosa. Vi prego di sospendere per oggi il giudizio. Vi prego di aprirvi – anche solo per un’ora – alla possibilità che sto per presentarvi.
Per trent’anni sono stato irreperibile. Non sono solito rivolgermi alla gente e parlare. Ma ora, per un momento, sono qui. È nostro dovere ripagare un debito a coloro che hanno fatto la fatica di mostrarci certe cose. Questo sapere noi lo abbiamo ereditato. Don Juan ci disse che non dobbiamo difenderlo. Vorremmo farvi capire che ci sono opzioni, possibilità insolite che non sono fuori dalla vostra portata.»
Gli antichi stregoni si accorsero per primi che qualcosa non andava per il verso giusto. Essi videro che nei bambini, le emanazioni luminose – tenute insieme da una forza agglutinante nella forma di un uovo – erano anche ricoperte da una patina di straordinario splendore.
Videro che alla crescita del bambino questa patina, anziché svilupparsi anch’essa di conseguenza, diminuiva drammaticamente.
Videro che questo involucro di luce era direttamente correlato alla consapevolezza dell’individuo e lo chiamarono lo splendore della consapevolezza.
La consapevolezza non si sviluppava come sarebbe stato naturale.
Inquietati da questa incongruenza estesero le loro indagini e scoprirono la presenza di esseri oscuri posti direttamente sullo sfondo del campo energetico umano e per questo difficilmente individuabili.

Gli sciamani toltechi scoprirono la presenza di esseri oscuri posti direttamente sullo sfondo del campo energetico umano e per questo difficilmente individuabili.
Gli stregoni videro che questi esseri oscuri si cibavano della lucentezza della consapevolezza di ogni individuo, riducendone sempre di più la patina luminosa.
Le entità oscure sono particolari esseri inorganici, coscienti e molto evoluti e poiché si muovono saltellando o volando come spaventose ombre vampire furono chiamati los voladores, ovvero quelli che volano.
Don Juan: «Sei arrivato, e con le tue sole forze, a ciò che per gli sciamani dell’antico Messico era la questione suprema. Per tutto questo tempo non ho fatto che menare il can per l’aia, insinuando in te l’idea di un qualcosa che ci tiene prigionieri. Ed è davvero così!»
Carlos: «Perché questo predatore ci avrebbe sottomessi nel modo che stai descrivendo, don Juan? Dev’esserci una spiegazione logica.»
Don Juan: «Una spiegazione c’è ed è la più semplice che si possa immaginare. I predatori hanno preso il sopravvento perché siamo il loro cibo, la loro fonte di sostentamento. Ecco perché ci spremono senza pietà. Proprio come noi alleviamo i polli nelle stie…»
I voladores si nutrono solo di un determinato tipo di energia e, come vedremo, noi produciamo molta di quella energia. Questo ci fa essere le prede ideali da mungere quotidianamente.
Il danno energetico che questa azione predatrice ci arreca è immenso. Siamo esseri magici dotati di possibilità infinite condannati a brandelli di consapevolezza: i voladores consumano regolarmente la patina luminosa – che torna a crescere per sua natura – e come impeccabili giardinieri tengono l’erba rasa sempre allo stesso (misero) livello. Gli sciamani vedono che la patina di luminosità rimastaci è una piccola pozzanghera di luce sotto i piedi, che non arriva nemmeno agli alluci.

Questa consapevolezza rimastaci è davvero poca cosa e ci permette giusto di interagire nel mondo quotidiano fissato dalla socializzazione, ma certo non ci dà modo di comprendere la nostra reale situazione o di riconoscere che condividiamo lo stesso destino degli animali che alleviamo.
Come inconsapevoli schiavi ci identifichiamo nei nostri predatori e riproponiamo i loro nefandi comportamenti con la natura in generale inquinando, disboscando, distruggendo e «sfruttiamo noi stessi senza ritegno i nostri animali: li mungiamo, li tosiamo, prendiamo loro le uova e poi li macelliamo o li rendiamo in diversi modi sottomessi e mansueti. Li leghiamo, li mettiamo in gabbia, tagliamo loro le ali, le corna, gli artigli ed i becchi, li ammaestriamo rendendoli dipendenti e gli togliamo poco a poco l’aggressività e l’istinto naturale per la libertà.»
Ci manca l’energia, non possiamo fare altro che specchiarci, nella pozzanghera di consapevolezza, in un limitato e illusorio riflesso di sé, una falsa personalità. «La coscienza delle suole rispecchia la nostra immagine, la nostra superbia e il nostro ego, i quali alla fine non sono altro che la nostra vera gabbia.»
L’esigua pozzanghera di consapevolezza è l’epicentro dell’egocentrismo in cui l’uomo è inconsapevolmente intrappolato.
Ci hanno tolto tutta l’energia, ma ci hanno lasciato proprio quella che ruota intorno all’Ego!
E proprio facendo leva sul nostro egocentrismo i voladores creano fiammate di consapevolezza che poi voracemente consumano.
I predatori alimentano l’avidità, il desiderio smodato, la codardia, l’aggressività, l’importanza personale, la violenza, le emozioni forti, l’autocompiacimento ma anche l’autocommiserazione. Le fiamme energetiche generate da queste qualità “negative” sono il loro cibo prediletto.
I voladores non amano invece la qualità vibrazionale della consapevolezza, dell’amore puro, dell’armonia, dell’equilibrio, della pace, della sobrietà… in una parola aborriscono la qualità energetica della crescita evolutiva, e hanno ogni vantaggio nel boicottare ogni nostro incremento di coscienza.
«La nostra mentalità da schiavi, che nella cultura giudeo-cristiana ci promette consolazione nell’aldilà, non porta alcun vantaggio a noi stessi, bensì ad una forza estranea, che in cambio della nostra energia ci fornisce credenze, fedi e modi di vedere che limitano le nostre possibilità e ci fanno cadere nella dipendenza.»
Secondo don Juan sono stati proprio i voladores a instillarci stupidi sistemi di credenza, le abitudini, le consuetudini sociali, e sono loro a definire le nostre paure, le nostre speranze, sono loro ad alimentare in continuazione e senza ritegno il nostro Ego.

Carlos: «Ma come ci riescono, don Juan? Ci sussurrano queste cose all’orecchio mentre dormiamo?»
Don Juan: «Certamente no. Sarebbe idiota! Sono infinitamente più efficienti e organizzati. Per mantenerci obbedienti, deboli e mansueti, i predatori si sono impegnati in un’operazione stupenda, naturalmente dal punto di vista dello stratega. Orrenda nell’ottica di chi la subisce.
Ci hanno dato la loro mente!
Mi ascolti? I predatori ci hanno dato la loro mente che è la nostra. La mente dei predatori è barocca, contraddittoria, tetra, ossessionata dal timore di essere smascherata. Benché tu non abbia mai sofferto la fame, sei ugualmente vittima dell’ansia da cibo e la tua altro non è che l’ansia del predatore, sempre timoroso che il suo stratagemma venga scoperto e il nutrimento gli sia negato. Tramite la mente che, dopotutto, è la loro, i predatori instillano nella vita degli uomini ciò che più gli conviene…
Le nostre meschinità e le nostre contraddizioni sono il risultato di un conflitto trascendentale che affligge tutti noi, ma di cui solo gli sciamani sono dolorosamente e disperatamente consapevoli: si tratta del conflitto delle nostre due menti.
Una è la nostra vera mente, il prodotto delle nostre esperienze di vita, quella che parla di rado perché è stata sconfitta e relegata nell’oscurità. L’altra, quella che usiamo ogni giorno per qualunque attività quotidiana, è una installazione estranea.»
Carlos: «Ma se gli sciamani dell’antico Messico e quelli attuali vedono i predatori, perché non fanno nulla?»
Don Juan: «Non c’è nulla che tu e io possiamo fare se non esercitare l’autodisciplina fino a renderci inaccessibili.
Ma pensi forse di poter convincere i tuoi simili ad affrontare tali rigori? Si metterebbero a ridere e si farebbero beffe di te, e i più aggressivi ti picchierebbero a morte. Non perché non ti credano. Nel profondo di ogni essere umano c’è una consapevolezza ancestrale, viscerale, dell’esistenza dei predatori.»

Gli esseri inorganici. Gli sciamani avevano scoperto che il mondo è una combinazione di due luoghi opposti e complementari, uno è il mondo che conosciamo o mondo degli esseri organici, l’altro è il mondo degli esseri inorganici che hanno consapevolezza ma non organismo, è un mondo gemello che occupa lo stesso spazio del nostro, noi non ci accorgiamo di loro ma loro si accorgono di noi.
Questi esseri non sono mai stati organici eppure hanno una consapevolezza che si evolve al pari della nostra.
Don Juan gli disse che sulla terra c’erano esseri inorganici che vagavano; gli sciamani li vedevano come sottili serpenti verticali o masse opache simili a candele. Essi sono attratti da noi e interagiscono con noi, la loro consapevolezza è lentissima, e gli sciamani li attirano nei sogni. Quando nel sogno il punto di unione si sposta essi ne sono attratti. Attraversando i due varchi del sognare si può attrarli e sentire le loro scariche di energia.
La loro energia si muove a velocità diversa dalla nostra per cui è difficile entrare in contatto con loro, ma si deve farlo senza paura, con un senso di forza e di distacco.
Possiamo avvertirne la presenza anche nel mondo visibile con un soprassalto fisico, una specie di brivido freddo che ci corre d’improvviso nelle ossa o una specie di scarica elettrica.
Nei sogni proviamo un parossismo di paura, ma, se abbiamo paura, queste forme ci inseguono.
Gli sciamani invece sanno unirsi a loro e farne degli alleati, e il segreto è non averne paura. Non si diventa sciamani se si ha paura.
Occorre abbandonare tanto la presunzione quanto la paura. Il viaggio interdimensionale richiede un sottile senso dell’equilibrio.
Gli esseri inorganici possono portare lo sciamano fuori del mondo umano.
Quando Castaneda cessò di avere attacchi di paura e entrò in una gran calma, allora le svolte del sognare arrivarono improvvise. Ed ecco che in un sogno li vide: “erano due figure dall’aspetto insolito, sottili, larghe non più di trenta cm ma lunghe ben più di due metri, incombevano su me come due enormi lombrichi”. Poi, le figure gli apparvero ogni volta che sognava. Don Juan gli disse che lo avevano scelto come amico in un reciproco scambio di consapevolezza e glieli fece incontrare da sveglio.
Lo portò tra le rocce nel deserto di Sonora dicendogli di visualizzare la loro forma, quando Castaneda aprì gli occhi vide due scuri bastoni minacciosi, ne afferrò uno e fu colpito da una scarica elettrica che gli diede la nausea, fu una specie di lotta, poi l’essere scomparve.

Quello che noi chiamiamo Angelo. Angelo vuol dire ‘messaggero’.
Castaneda si faceva molte domande, un giorno una voce dal nulla gli rispose. (Io ebbi una voce diretta per sei mesi che diceva fuori di me, nella stanza, delle brevi frasi a mo’ di epigrafi, con contenuto morale, indicative di come migliorarmi nella mia vita. Lori invece sentiva queste brevi frasi al risveglio, quando era a metà tra sonno e veglia. Laura bionda chiudeva gli occhi e vedeva le frasi scritte su un muro bianco. Donatella sentiva le frasi quando entrava in trance e le scriveva su un foglio, molti messaggi erano in poesia. E si pensi che tutti i libri di rivelazione sacra, La Bibbia come il Corano come i Veda sono in forma poetica).
Don Juan gli disse che cose simili sono normali per uno stregone e che aveva sentito la voce del suo Emissario del Sogno.
Dopo aver attraversato il primo e il secondo Varco i Sognatori cominciano a vedere cose e a sentire una voce. L’Emissario del Sogno è energia aliena che si propone di aiutare il Sognatore, ma non può oltrepassare ciò che il Sognatore sa, anche se ciò dice appare come una rivelazione.
In genere il Sognatore pensa di ricevere dei consigli sacri.
L’Emissario può essere una voce disincarnata o può apparire con una forma visibile, è una forza che viene dal mondo degli esseri inorganici e che i Sognatori incontrano sempre.
Tutto il mondo degli esseri inorganici è sempre pronto a insegnare, essi hanno una consapevolezza più profonda e si sentono obbligati a prenderci sotto le loro ali, “prendono il nostro Sé di base come misura di quello di cui abbiamo bisogno e poi ci insegnano di conseguenza…Ma se questo Sé è di basso livello anche gli insegnamenti sono di basso livello”.
Gli antichi sciamani si appoggiarono molto a questi Emissari, essi rappresentavano un ponte perfetto, erano portati a guidare. Ma Don Juan non li apprezzava perché voleva essere libero nelle sue scelte mentre chi si appoggiava agli Emissari finisce col consultarli per ogni cosa perdendo la propria iniziativa.
Castaneda sentì la voce dell’Emissario che diceva: ”Io ti piaccio perché non trovi nulla di male nell’esplorare tutte le possibilità. Tu miri alla conoscenza e la conoscenza è Potere. Non vuoi rimanertene al sicuro nelle credenze e nelle abitudini del nostro mondo di tutti i giorni”. La voce parlava in californiano, in spagnolo e in portoghese ma Castaneda ne provò nausea.
Quando il punto di unione si spostava, cambiava la forma di energia e avveniva un piccolo cambiamento. Ora questi cambiamenti dovevano essere conservati in una unità coesa, e questo avveniva quando il sogno era molto chiaro.
Don Juan voleva far diventare il punto di unione di Castaneda fluido, diceva che nei bambini esso è sfarfallante e cambia posto con facilità, per questo i bambini sanno e vedono molte più cose degli adulti, ma non ne parlano perché gli adulti non li credono e a poco a poco essi imparano a rimuovere quelle percezioni che non si adattano all’ambiente culturale in cui crescono e si omologano agli altri.
L’abitudine culturale e sociale stabilizza il punto di unione.
Nello stregone questa fissazione viene annullata, egli percepisce cose per cui non ha punti di riferimento.
Il terzo varco del sognare è vedere in sogno qualcuno che dorme e scoprire che siamo noi.
Questo completa il corpo energetico che deve resistere alla tentazione di essere catturato da ogni dettaglio di ciò che vede.
Le storie di stregoneria dicono che gli sciamani antichi riuscirono a modificare le linee delle loro uova luminose, formularono una linea che era mille volte più grande delle dimensioni di un globo energetico normale e percepirono tutti i filamenti luminosi che attraversano quella linea, e dunque riuscirono ad allungare la durata della coscienza, così restarono vivi in qualche mondo che non sappiamo, da cui a volte tornano sulla terra.
Si dice che la sciamana Carol Tiggs, amica di Don Juan, scomparve per dieci anni per ricomparire all’improvviso, stralunata, in una libreria di Santa Monica.
La storia della magia tolteca finisce qui.
Castaneda è morto a 73 anni di tumore al fegato. Nel mondo antico il fegato era l’organo della consapevolezza, l’organo dell’anima, dove Jung poneva l’origine del sognare. Quell’organo che rifletteva l’universo e che antichi popoli, gli Etruschi come i Celti, consultavano nell’arte aruspicina per predire le sorti.
Noi possiamo anche pensare che Castaneda non sia veramente morto ma che si sia spinto in là con la sua consapevolezza e che stia viaggiando attraverso mondi a noi sconosciuti e possiamo pensare che egli possa un giorno misteriosamente ritornare.
Aveva detto a Don Juan: “Io voglio la libertà. La libertà di conservare la mia consapevolezza e anche di scomparire nell’infinito”.


Breve biografia di Carlos Castaneda. Gli undici volumi della sua opera narrano del suo apprendistato durato tredici anni, con lo sciamano don Juan Matus, messicano di etnia yaqui. I suoi lavori subito criticati dall’ambiente antropologico, perché ritenuti non consoni agli standards accademici, riscossero un’eccezionale accoglienza dal pubblico che così venne a contatto per la prima volta con i principi più profondi dello sciamanesimo tolteco.La biografia di Castaneda attualmente disponibile non può avvalersi di dati certi e precisi, perché buona parte della sua vita fu avvolta dal mistero; rare sono state, almeno in un primo momento, le interviste e le foto, e del tutto sporadiche le apparizioni in pubblico. Carlos Arana Castaneda nacque nel 1925 a Cajamarca, in Perù e nel 1951 emigrò a Los Angeles. Si laureò in antropologia alla celebre Università della California di Los Angeles. Nel 1960, mentre era impegnato in una ricerca sul campo intorno alle proprietà di alcune piante psicotrope, conobbe Don Juan. Questo incontro gli avrebbe cambiato la vita. L’iniziale approccio antropologico si trasformò in una vera e propria iniziazione allo sciamanesimo, le cui tappe sono descritte dettagliatamente nel suo primo libro “A scuola dallo stregone-Gli insegnamenti di Don Juan”, che fu accettato dall’Università della California come tesi di laurea e pubblicato nel 1968.

L’apprendistato con Don Juan
Durante i primi cinque anni dell’apprendistato, lo sciamano somministrò a Castaneda diverse piante allucinogene (la Lophophora Williamsii, la Datura inoxia e la Psilocybe mexicana), piante sacre sotto il cui influsso un terribile segreto gli fu rivelato: il mondo, così come lo vediamo, è solo il risultato di ciò che ci hanno insegnato a vedere. E’la prima delle molte sfide in cui Castaneda vedrà messe in gioco le strutture della sua mente, nel conflitto implacabile tra la sua razionalità di uomo occidentale e la percezione del mondo degli stregoni. Nel 1971 Castaneda pubblicò “Una realtà separata”, continuando la trascrizione degli insegnamenti di Don Juan. Anche qui l’uso rituale delle piante allucinogene assume un ruolo fondamentale, ma è la figura di don Juan a campeggiare; la “via con un cuore” che egli prospetta ad un sempre più incredulo Castaneda, risplende del rigore e della limpidezza morale, della straordinaria intensità delle sue azioni. E’ nel terzo libro, Viaggio ad Ixtlan,che vengono precisati e sviluppati alcuni dei concetti chiave della tradizione tolteca. Il racconto delle esperienze sostenute con le piante psicotrope resta di fatto sullo sfondo, e alla cronaca si sovrappone l’analisi delle strutture concettuali del mondo di don Juan. Don Juan stesso confiderà in seguito a Castaneda che l’uso delle piante allucinogene non ha un valore assoluto nel sistema sciamanico; si rende necessario nel caso in cui le strutture razionali dell’apprendista non possono cedere senza ricevere un duro scossone.

E’ per altro innegabile che il successo dei primi tre libri di Castaneda, pubblicati agli inizi degli anni Settanta, nel pieno fiorire della cultura psichedelica, fu dovuto in buona parte ai resoconti dei “viaggi” seguiti dall’ingestione di piante magiche e si trattò, senza dubbio, di una coincidenza fortunata.
Dopo la pubblicazione di Viaggio ad Ixtlan Castaneda interruppe per un lungo periodo i suoi rapporti con Don Juan. Quando li riprese venne catapultato in una nuova fase della sua esperienza iniziatica, in cui gli insegnamenti di don Juan acquistano uno spessore ed una portata del tutto imprevedibili.
L’universo degli sciamani toltechi si rivela finalmente in tutta la sua coerenza e nella sua complessità; don Juan lo trasmette al suo apprendista per mezzo della spiegazione degli stregoni, di cui tonal enagual sono i concetti cardine.
L’isola del tonal è per l’appunto il titolo di questo quarto libro. Al termine dell’opera, al momento della definitiva scomparsa di don Juan, l’accettazione del sistema sciamanico tolteco da parte di Castaneda sarà assoluta e senza incertezze, al punto che l’antropologo accetterà di gettarsi in piena consapevolezza da un abisso, sfidando e vincendo una morte altrimenti inevitabile.
Dopo questo “salto nell’abisso”, l’apprendistato di Castaneda continua fra compagni diversi: quattro donne e quattro uomini che avevano condiviso con lui una parte degli insegnamenti di don Juan. Il secondo anello del potere e la prima metà de Il dono dell’Aquila, i due successivi lavori dello scrittore sudamericano, sono dedicati al resoconto della sua incapacità di assumere il ruolo di leader di questo gruppo. Ma sarà proprio l’interazione con una delle donne-guerriere, la Gorda, a suscitare in lui l’emergere di un imponente flusso di ricordi, che gli sveleranno un’ulteriore, incredibile serie di istruzioni ricevute da don Juan in un particolare stato di consapevolezza, la “seconda attenzione”. Da quel momento in poi, a partire dalla seconda metà de Il dono dell’Aquila, tutte le opere di Castaneda sono dedicate all’assemblaggio di quelle perdute esperienze ed alla ricostruzione del sistema cognitivo degli antichi sciamani toltechi (è questo il caso de Il fuoco dal prodondo e de Il potere del silenzio, rispettivamente settimo ed ottavo libro dell’autore).
Con l’Arte di sognare, posteriore di qualche anno, entrano in scena tre nuovi personaggi: Carol Tiggs, la donna-nagual, Florinda Donner-Grau e Taisha Abelar due giovani apprendiste che accompagneranno l’ultima fase della vita di Castaneda. Saranno autrici a loro volta di testi fondamentali per la comprensione e la definizione dell’universo degli sciamani toltechi, nonché attrici in prima persona di quell’imprevista evoluzione degli insegnamenti castanediani proposta nella penultima fatica dello scrittore peruviano: Tensegrità, un tentativo di mettere le pratiche degli antichi sciamani toltechi a disposizione di tutti.
Il testamento spirituale di Castaneda è affidato a Il lato attivo dell’Infinito, scritto pochi mesi prima della morte. E’ un’opera anomala e struggente, che ripercorre le prime fasi della sua relazione con don Juan, per concludersi simbolicamente nel momento in cui, miracolosamente sopravvissuto al “salto nell’abisso”, Castaneda era rientrato nel mondo della vita di tutti i giorni, non più semplicemente uomo, ma sciamano.

Tonal e Nagual
Tutte le conoscenze trasmesse da Don Juan a Carlos Castaneda appartengono ad un’antichissima tradizione, sviluppata da uomini che vissero secoli prima della colonizzazione spagnola, i Toltechi, i cui sciamani erano depositari di segreti e misteri che li rendevano molto diversi dagli uomini comuni. Si tratta di una tradizione millenaria che ha avuto un’evoluzione travagliata, non priva di momenti di profondissima crisi. L’arrivo dei Conquistadores ne rappresenta l’esempio più eclatante. Gli stregoni toltechi, messi di fronte ad un evento epocale, che aveva quasi spazzato via l’intera civiltà sudamericana, dovettero affrontare un’alternativa senza vie di scampo: adeguarsi o sparire. Una nuova generazione di veggenti (chiamati per l’appunto da don Juan i “nuovi veggenti”) mise in atto allora un profondo rinnovamento, separandoli per sempre dai modi e dalle pratiche dei veggenti delle generazioni precedenti: li tramutò in “esploratori dell’Infinito”, capaci di accrescere fino ai limiti estremi i confini della percezione ed incuranti di esercitare il proprio potere sul resto della razza umana. Don Juan sosteneva di essere l’ultimoNagual di questo nuovo lignaggio.
La prima parte dell’apprendistato di Castaneda culmina nella definizione di questi concetti. Don Juan si serve del tavolino di un ristorante per rendere accessibile al suo allievo laspiegazione degli stregoni, cioè l’essenza del tonal e del nagual. Tutti gli oggetti che stanno sul tavolo, la tovaglia, le posate, i bicchieri, la saliera ecc., rappresentano le cose del mondo così come si presentano alla percezione di un qualunque essere umano. Tutto quello che può essere percepito, pensato o immaginato, dalla più infima particella subatomica, alla totalità delle galassie stesse, trova posto sul tavolino di don Juan, di fronte all’allibito sguardo di Castaneda: è il Tonal, l’effetto finale di una forza smisurata che costringe il mondo ad essere così com’è e come ci appare.
Tutto quello che non può essere pensato dalla nostra mente, e che pur esiste liberamente al di fuori del suo raggio d’azione è il Nagual, un’immensità in parte semplicemente ignota, in parte del tutto irraggiungibile per l’uomo. Qualunque briciola di essa venga afferrata dalla nostra mente si trasforma in uno dei tanti oggetti sopra il tavolo di don Juan, nell’ennesimo elemento che costituisce l’isola del Tonal. Tutto intorno ad essa il Nagual è come un mare senza fine e gli sciamani ne sono i temerari esploratori. L’uomo comune è condannato a vivere una condizione in cui tonal e nagual restano perpetuamente divisi: la nascita ci scaraventa nel mondo del tonal e la morte ce ne separa. Il nagualresta sempre sullo sfondo: se talora udiamo la sua voce è solo un sussurro terribile e spaventoso. Gli sciamani possono percepire l’energia così come fluisce nell’universo, in un’esperienza cognitiva da cui la mente ed il linguaggio sono esclusi (laconoscenza silenziosa).
Alcuni di loro possono mettere i loro apprendisti direttamente in contatto con questa forza senza limiti e vengono chiamati Nagual essi stessi. E’ l’appellativo che spetta di diritto a Juan Matus e a Carlos Castaneda.

Percepire l’energia
Gli sciamani sono “stregoni” non nel senso che usano poteri sovrannaturali o evocano spiriti per mezzo di rituali o incantesimi, bensì in quanto sono percettori dell’Infinito ed hanno superato i limiti del mondo quotidiano, il tonal.
Alla percezione degli sciamani l’universo appare formato da innumerevoli campi di energia che hanno la forma di filamenti luminosi. Sembrano irradiare tutti da una fonte primaria che alla loro visione appare un’Aquila. Questi filamenti, le emanazioni dell’Aquila, possono raccogliersi in grandi fasce, intrecciate fra di loro in tutte le relazioni possibili, o essere racchiusi in una sorta di involucro, di “bozzolo” luminosi, dalle forme più svariate. Ad ognuna di esse corrisponde una delle miriadi di specie che popolano l’universo. Anche gli esseri umani sono composti da innumerevoli campi di energia filiformi, che formano un agglomerato simile ad un “uovo” luminoso. Una piccola parte delle emanazioni dell’Aquila racchiuse in questo bozzolo risulta più intensamente illuminata alla contemplazione dei veggenti: è il “punto d’unione” (o punto di assemblaggio). I campi di energia situati intorno al punto d’unione si allineano ai campi energetici delle grandi fasce di emanazioni circostanti, generando un bagliore più intenso: lo splendore della consapevolezza, cioè il miracolo della percezione. Ma solo una piccola parte delle emanazioni contenute nel bozzolo è impegnata nel processo della percezione, il resto è esclusa dal bagliore del punto d’unione.
Tutte le tecniche insegnate da don Juan a Castaneda avevano lo scopo di “spostare” il suo punto d’unione dalla posizione abituale, vincendone la resistenza naturale e imperativa in tutti gli uomini, impegnati strenuamente a proteggere la “realtà” e la concretezza del mondo. Ma diventare sciamani significa proprio questo: liberare il punto d’unione dalla sua posizione abituale, permettendogli di allineare altri fasci di emanazioni e di aprire così nuovi ambiti di percezione. E’ il secondo anello del potere, a disposizione di tutti gli uomini, ma accessibile ai soli sciamani.
Piccoli spostamenti del punto d’unione avvengono naturalmente nel corso del sonno: nei brevi istanti in cui la percezione si fissa su una posizione inusuale l’uomo sogna. Uno spostamento dello stesso genere permette ad uno stregone di fissare il punto d’unione del suo apprendista in una posizione particolare, chiamata seconda attenzione, contrapposta alla prima, quella della vita di tutti i giorni. In quella posizione si svolgerà una seconda, essenziale, fase dell’insegnamento, che l’apprendista potrà scoprire solo quando sarà in grado di liberare da solo il punto d’unione dalla fissità della posizione abituale.

Il cammino dell’apprendista
Ma come si diventa sciamani? Cosa ha permesso a Castaneda di diventare l’apprendista dello stregone yaqui Juan Matus? Nessuna qualità, né acquisita, né innata. E’ stato l’Intento, la forza indescrivibile ed ineffabile che pervade tutto, a fare la sua scelta e tanto per il giovane antropologo, quanto per il vecchio Nagual è stato impossibile sottrarsi al “segno” inviato dallo Spirito.
Da allora in poi gli insegnamenti si sono svolti su un duplice livello: nella consueta posizione del punto d’unione, la prima attenzione, chiamato anche lato destro, dove lo sciamano deve convincere il suo apprendista che l’apparente concretezza del mondo è un’illusione, ed in una posizione leggermente sfalsata dello stesso punto d’unione, quella della seconda attenzione, olato sinistro(perché alla visione del veggente il punto d’unione è collocato a destra, oppure a sinistra del centro dell’uovo luminoso).
Questa seconda posizione, raggiunta dall’apprendista in virtù dell’intervento ( il “tocco”) del Nagual, può essere sostenuta solo per periodi di breve durata, poi la forza dell’allineamento consueto prevale e tutto torna come prima.
Le istruzioni per il “lato sinistro”, la posizione anomala del punto d’unione, si svolgeranno parallelamente alle altre, ma rimarranno inaccessibili alla memoria di Carlos Castaneda, finchè lui stesso non sarà in grado di spostare il punto d’unione da solo, senza l’intervento di don Juan. Compito dello sciamano è quindi quello di mettere il proprio apprendista in grado di provocare da solo quello spostamento, in modo da poter attingere al patrimonio di esperienze ed informazioni che sono state depositate in lui in uno stato di coscienza alterata. La lunga serie di esperienze e di pratiche, rivolte a modificare in tutto e per tutto la vita dell’apprendista, dovranno culminare drammaticamente nell’atto di saltare consapevolmente da un abisso: solo un volontario spostamento del punto d’unione consente allora all’apprendista di sfuggire alla morte.
Da quel momento in poi la sua vita sarà dedicata a riassemblare la totalità degli insegnamenti ricevuti, in un processo di scoperte e rivelazioni clamorose. Carlos Castaneda scoprirà, per esempio, di aver interagito per anni con persone del seguito di don Juan e di averne perso completamente memoria; si renderà dolorosamente conto di aver addirittura dimenticato la propria controparte energetica, la donna Nagual, Carol Tiggs. Come giocando con una matrioshka, scoprirà di avere un gruppo di apprendisti, essendo a sua volta un Nagual, e poi un altro gruppo ancora, entrambi con la propria indipendente striscia di ricordi.


Le tecniche
Per seguire il sentiero degli stregoni e realizzare la rivoluzione interiore che lo trasformerà in uno sciamano Castaneda deve sconfiggere, come un vero e proprio guerriero una serie di nemici.
In primo luogo la propria “importanza personale”, quella totale identificazione con se stesso che dà ad ogni uomo la convinzione di essere speciale e il diritto di sentirci sempre offeso da qualcuno o da qualcosa, nonché l’illusione di essere immortale.
Al fine di vincere questo nemico il guerriero deve “cancellare la storia personale”, cioè scoprire e disattivare le proprie ossessioni e limitare l’incidenza delle abitudini: riacquisterà così la naturale fluidità, creandosi attorno una nebbia che rende impossibile agli altri, ed in primo luogo alla sua mente stessa, di inchiodarlo ad una visione univoca e statica di sé, fatta di punti di vista ed opinioni definitive e limitanti. Come la cancellazione dell’importanza personale libera il guerriero dall’invadenza del proprio io, così un’altra tecnica straordinaria, il “non fare”, gli permette di sgominare un secondo temibile nemico: l’illusione dell’irreversibile saldezza della realtà. Il mondo ordinario è sostenuto dal “fare”, cioè da una visione coerente della realtà, prodotta dall’ancoraggio del punto d’unione di tutti gli uomini nella medesima posizione; la pratica del “non fare” è incentrata su una multiforme serie di esercizi, tutti tesi a incrinare la nostra assoluta credenza nell’effettiva realtà della visione del mondo costruita dai nostri sensi.
Ma la pratica più importante di tutte è la ricerca sistematica del silenzio interiore. L’interruzione del dialogo interiore, cioè del flusso di pensieri che noi incessantemente rivolgiamo a noi stessi, è una tecnica base in molte discipline spirituali, per esempio in alcuni sistemi di meditazione yogica. Se eliminiamo l’interferenza del dialogo interno, che ci impone di non cercare nulla oltre i limiti delle sue categorie, la nostra ragione è costretta a farsi da parte ed allora molte meraviglie diventano possibili: una cosa semplice come “guardare” può trasformarsi nell’atto magico di “vedere”, cioè nella percezione diretta dell’energia così come fluisce nell’universo. Portare a compimento quest’impresa significa fermare il mondo, cioè interrompere per sempre la coesione e la coerenza della nostra percezione.  Per raggiungere il pieno controllo di qualunque spostamento del punto d’unione sono indispensabili al guerriero altre due pratiche: l’agguato e il sognare. L’agguato sviluppa la capacità del guerriero di mettere sotto osservazione i propri comportamenti e quelli degli altri, in modo da poter gestire se stesso al meglio in ogni situazione; coloro che sono particolarmente portati per questa pratica sono detti cacciatoriSognatori sono invece chiamati coloro che eccellono nell’arte di sognare (descritta nell’omonimo libro). Questa tecnica si fonda sulla possibilità che i sogni comuni, prodotti dal naturale spostamento del punto d’unione durante il sonno, possano tramutarsi in vere e proprieporte verso altri mondi. Imparare a controllare sistematicamente questi spostamenti mediante particolari tecniche (celebre quella di impartirsi l’ordine di trovare e poi contemplare le proprie mani in sogno) consente di mettere a fuoco l’attenzione ed accrescere la consapevolezza all’interno del sogno stesso, sviluppando altresì il corpo di sogno, una sorta di doppio eterico dell’io stesso, non meno reale e consistente di questo.Il sognare descritto da Castaneda è analogo al sogno lucido studiato dall’odierna parapsicologia e le tecniche proposte presentano notevoli analogie con lo “Yoga del sogno” esposto dal maestro tibetano Namkhai Norbu.
Pietra angolare dell’insegnamento tolteco è infine la tecnica della ricapitolazione, descritta per la prima volta ne Il dono dell’Aquila e portata poi in primo piano nelle opere successive. Ricordando sistematicamente gli eventi, le emozioni, le interazioni e persino le idee e le fantasticherie che costituiscono la trama della vita di ognuno di noi è possibile recuperare l’energia che vi abbiamo profuso e che vi giace intrappolata. Ricapitolare per intero tutta la propria storia personale è molto di più che un semplice esercizio, è una pratica che gli antiche sciamani toltechi vedevano connessa con l’unica possibilità concessa all’uomo (per l’appunto il dono dell’Aquila) di sfuggire ad una morte altrimenti inevitabile ed affacciarsi sul palcoscenico della Libertà Totale.

L’ultima sfida
Alla fine della vita di ogni essere umano l’Aquila reclama la consapevolezza che è stata elargita al momento della nascita. Quando muoiono, infatti, gli esseri umani entrano nell’Ignoto come consapevolezza incorporea che giunta dinanzi al “becco” dell’Aquila viene dissolta e divorata. Gli stregoni, che hanno esplorato l’Ignoto nel corso della loro vita, sviluppando al massimo grado la loro consapevolezza, hanno un’estrema possibilità: presentare all’Aquila il frutto della loro ricapitolazione, una sorta di duplicato della loro consapevolezza. Se questo pedaggio viene pagato l’Aquila permette loro di scivolare oltre e di continuare, senza perdere consapevolezza, il lungo viaggio nell’Infinito. Così, secondo il racconto di Castaneda, lasciarono il mondo don Juan e i guerrieri del suo seguito, permettendo a tutte le emanazioni dei loro bozzoli di allinearsi con le emanazioni esterne e di risplendere all’unisono nello splendore della consapevolezza. E’ il fuoco dal profondo, l’ultimo consapevole atto della vita di uno sciamano, l’epilogo vittorioso di tutte le sue battaglie. La battaglia per gli stregoni però non termina mai. Essi continuano la lotta per la consapevolezza in altri livelli di realtà, dove si può vivere e morire. Gli sciamani viaggiano nell’Infinito e questa terra non è altro che una tappa di questo viaggio. E’ l’universo stesso che consente allo stregone di trasformarsi in pura coscienza: il suo corpo diventa pura energia e, nella nuova forma, lo attendono nuove sfide.